La storia dei protagonisti

Nato a Querceta di Seravezza (Lucca) nel 1920, crebbe a Pisa dove il padre si era trasferito per sfuggire alle persecuzioni degli squadristi locali. Frequentato l’Istituto Tecnico, si riscrisse alla Facoltà di economia e Commercio, trovando lavoro in un’azienda commerciale, mentre il fratello Dino intraprese la carriera di ufficiale pilota nell’Aeronautica Militare.

    Allo scoppio della Guerra, fu inviato a Rodi come sottotenente del Genio Aeronautico, poi rientrò a Pisa dopo la morte del fratello Dino, avvenuta a Roma nel 1942 durante un volo di collaudo.

In questo periodo maturò definitivamente la sua coscienza antifascista e si impegnò nell’attività di un gruppo antifascista che agiva in città.

   A causa dei devastanti bombardamenti dell’estate 1943, Gino e i genitori tornarono in Versilia, stabilendosi a Ruosina (Seravezza) e, subito dopo l’armistizio, divenne uno dei principali organizzatori della nascente Resistenza. Sfuggito ad un tentativo di cattura da parte dei fascisti, Lombardi, insieme all’amico e collaboratore Piero Consani, si rifugiò in località Porta di Farnocchia, dove, alla fine di febbraio, costituì la prima formazione partigiana versiliese, i ” Cacciatori delle Apuane”.

   Nonostante l’esiguità numerica e la scarso armamento, la formazione riuscì a creare seri problemi ai nazifascisti che il 16 e 17 aprile 1944 effettuarono un imponente rastrellamento sui monti dello Stazzemese, ma i partigiani riuscirono a sganciarsi.

    Purtroppo, dopo pochi giorni, il 21 aprile, Gino Lombardi cadde in una sparatoria contro militi della GNR a Sarzana (SP), dove si era recato insieme a Piero Consani e Ottorino Balestri per prendere contatto con la resistenza locale.

Per approfondimenti clicca

Nato a Viareggio (Lucca) nel 1878, iniziò la carriera militare nel 1893 come allievo dell’Accademia Navale. Nominato guardiamarina nel 1898, nel 1905 fu promosso a tenente di vascello. Tra il 1911 e 1912 combatté nella guerra italo-turca, poi nel primo conflitto mondiale sulle corazzate “Conte di Cavour” e “Andrea Doria”. Promosso capitano di corvetta nel 1916, si distinse in uno scontro navale nel settembre 1917 in Alto Adriatico, che gli valse la Medaglia di bronzo e la Croce di guerra. Negli anni seguenti fece una brillante carriera ottenendo dal 1934 al 1939 le promozioni ad ammiraglio di divisione e di squadra, a sottocapo di stato maggiore della Marina e la nomina a senatore del Regno.

  Dopo l’entrata in guerra dell’Italia, partecipò agli scontri di Punta Stilo e di Capo Teulada, al comando della squadra navale. Nel novembre del 1941, collocato in ausiliaria per raggiunti limiti di età, fu nominato governatore delle Isole dell’Egeo e comandante di tutte le forze armate operanti in quel settore. Dopo l’8 settembre 1943 guidò, in tale veste, la resistenza ai tedeschi fino alla resa dell’Isola di Rodi l’11 settembre. Catturato, fu deportato dapprima in Germania e in seguito consegnato dai tedeschi ai fascisti di Salò insieme all’ammiraglio Luigi Mascherpa. Campioni e Mascherpa furono processati e condannati a morte dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato, convocato a Parma il 22 maggio 1944 e presieduto dal generale Griffini. La sera stessa, le sorelle di Campioni e Toffanin, avvocato di Mascherpa, si rivolsero a Mussolini, presso il Lago di Garda, per presentare la domanda di grazia. La domanda non fu accolta e la sentenza fu eseguita alle ore 5,15 del 24 maggio. Le sorelle di Campioni non poterono essere presenti perché ancora in viaggio. I due condannati chiesero di restare in piedi e di non essere bendati. Conservarono un contegno calmo e dignitoso. Davanti al plotone d’esecuzione Campioni dichiarò: «Auguriamoci che questa nostra Italia ritorni unita e bella come prima. Viva l’Italia!”.

Il 9 novembre 1947 gli fu assegnata la Medaglia d’oro al Valor Militare alla memoria con la seguente motivazione: «Governatore e comandante delle Forze Armate delle isole italiane dell’Egeo si trovava, nel cruciale periodo dell’armistizio, a capo di uno degli scacchieri più difficili, lontani e vulnerabili. Caduto in mano al nemico in seguito ad occupazione della sede del suo comando, rifiutava reiteratamente di collaborare con esso o comunque di aderire ad un Governo illegale. Processato e condannato da un tribunale straordinario per avere eseguito gli ordini ricevuti dalle Autorità legittime e per avere tenuto fede al suo giuramento di soldato, manteneva contegno fiero e fermo, rifiutando di firmare la domanda di grazia e di dare adesione anche formale alla repubblica sociale italiana, fino al supremo sacrificio della vita. Cadeva comandando lui stesso il plotone di esecuzione, dopo avere dichiarato che « bisogna saper offrire in qualunque momento la vita al proprio Paese, perché nulla vi è di più alto e più sacro della Patria ». — Egeo -Italia settentrionale, 1941 – 1944».

Nato a Seravezza (Lucca) nel 1911, laureatosi giovanissimo in Giurisprudenza, iniziò la professione di avvocato nello studio legale dell’on. Luigi Salvatori, figura di primo piano dell’Antifascismo versiliese.
  Prestò servizio militare come ufficiale dell’Artiglieria Costiera e, durante la Seconda Guerra Mondiale, fu inviato nell’isola di Lero, come comandante di una batteria. Dopo l’armistizio, fu tra i protagonisti della resistenza che, per 52 giorni, le truppe italiane opposero ai Tedeschi, tanto da essere insignito, nel dopoguerra, di medaglia d’argento e di bronzo al valor militare. Dopo la resa, fu internato militare in Germania e in Polonia, rientrando in patria nell’estate 1945, dove riprese l’attività di avvocato.
   Iscrittosi al Partito Socialista, fu eletto deputato all’Assemblea Costituente e nominato tra i 75 membri della Commissione per la stesura della Costituzione.
 Riconfermato ininterrottamente alla Camera dal 1948 al 1972, fu presidente della Commissione giustizia nel 1963, sottosegretario agli Interni nel primo, secondo e terzo gabinetto Moro (1963-’68), sottosegretario di Grazia e giustizia nel I gabinetto Rumor (1968-’69). Nominato giudice della Corte costituzionale (1972), ne  divenne Presidente dal 1979 al 1981.
  Mantenne sempre uno stretto legame con la Versilia, ricoprendo anche le cariche di Consigliere Comunale a Seravezza ed a  Pietrasanta e di Consigliere Provinciale a Lucca. Dirigente nazionale dell’ANPI, contributi costantemente all’attività della sezione di Pietrasanta. E’ deceduto nel 1997.
 Motivazione della Medaglia d’Argento al Valor Militare: “Comandante di Gruppo in base navale stretta d’assedio da preponderanti mezzi nemici infondeva nei dipendenti elevato spirito combattivo e li spronava a continuare la lotta anche quando, in conseguenza della violenta offensiva nemica, le sue batterie non potevano sparare che con un numero molto limitato di cannoni. Sopravvenuto lo sbarco nemico dal cielo e dal mare, dava opportune disposizioni, spesso d’iniziativa, per efficaci azioni di fuoco contro mezzi navali e contro truppe tedesche sbarcate, riuscendo ad affondare con le sue batterie 5 mezzi navali nemici. Batteva inoltre incessantemente con azione protrattasi per più giorni, le posizioni delle truppe tedesche sbarcate, riscuotendo il plauso dello stesso comando alleato. Esempio di serena fermezza, sprezzo del pericolo ed elevato senso del dovere. Gruppo Contraereo Nord- Lero, 26 settembre-16 novembre 1943”.

Nato a Viareggio nel 1920, frequentò il locale Liceo Classico “Giosuè Carducci”, dove maturò la coscienza antifascista insieme ad un gruppo di studenti, futuri protagonisti della Resistenza versiliese. Conseguita la maturità, si iscrisse all’Università di Pisa, intensificando la sua attività antifascista clandestina. Richiamato alle armi, frequentò il corso allievi ufficiali a Lucca, poi venne destinato a Nola. Nel maggio 1943 sposò Didala Ghilarducci, che condividerà con lui la lotta partigiana, e nel settembre del 1943 nacque il figlio Riccardo. Dopo l’armistizio fu tra i primi partigiani versiliesi e diventò uno dei principali esponenti della formazione “Marcello Garosi”, con il nome di battaglia di Chittò, soprannome che portava fin da bambino. Cadde il 28 agosto 1944 nei pressi di Gualdo (Massarosa), durante un’azione esplorativa, che stava effettuando insieme a Giancarlo Taddei, comandante della “Garosi”e Gustavo Rontani (“Tono”) per predisporre lo spostamento verso la piana della formazione, essendo ormai prossima l’avanzata degli Alleati in territorio vesiliese.

I tre caddero in un’imboscata tesa da una pattuglia tedesca e, non essendo armati per evitare rappresaglie verso la popolazione in caso di cattura, non poterono reagire.
Taddei e Bertini caddero uccisi, mentre riuscì a fuggire Rontani, che il giorno seguente inviò il seguente messaggio al CLN:

“ 29/8/44, ore 9
Caro Tonino (Antonio Giorgetti), è per darti tristissime notizie che ti scrivo. In un agguato tesoci dai tedeschi sul sentiero da Chiari a Gualdo, i nostri ottimi e poveri amici Beppe e Chittò sono stati trucidati. La tragedia è successa ieri all’una del pomeriggio ed è per miracolo che sono rimasto vivo io. Ecco come è successo.
Stavamo ritornando da un giro di ricognizione alla zona insieme a Beppe, quando sul sentiero suaccennato ci siamo trovati di fronte ad una pattuglia di tedeschi, che si era nascosta fuori dal sentiero, aspettando gli uomini di passaggio. Ci siamo lanciati in fuga verso una scarpata che portava in fondo valle, subito inseguiti dai tedeschi che ci sparavano dietro vari colpi di pistola,e, credo,di “master”, senza peraltro ferirci. L’inseguimento è continuato fino in fondo al vallone, ma le SS sono riuscite a d aggirarci ed a intercettare la fuga, prima di Chittò, poi di Beppe. Vista inutile la fuga, mi sono gettato in un ruscello lì vicino, cercando di nascondermi. Ho inteso che domandavano qualcosa a Beppe che si trovava a dieci passi da me  e Beppe rispose:”Non capire, non capire!” Poco dopo udivo due colpi d’arma da fuoco e Chittò che gridava: “Ahi,Ahi!”. Seguivano altri quattro colpi di pistola. Ho inteso cadere i corpi rantolando, poi più niente.
I tedeschi, che credo fossero quattro o cinque, sono rimasti un po’ a contemplare il oro assassinio e poi si sono allontanati. Sono riuscito così a riprendere la fuga e a pormi in salvo(…)”.
Nel dicembre 2006 alla Ciro Bertini è stata concessa la Medaglia d’Argento al
Merito Civile alla memoria, con la seguente motivazione: ”Vice comandante di un distaccamento partigiano veniva catturato in un’imboscata tesa da una pattuglia di SS e barbaramente trucidato, immolando la sua giovane vita ai più alti ideali di democrazia e di libertà. 28 agosto 1944, Massarosa – Lucca”

Nato nel 1914 a Montecarlo (Lucca), da genitori insegnanti elementari, si trasferì a Viareggio, dove conseguì la maturità al Liceo Classico ”Carducci”, iscrivendosi poi all’Università di Pisa. Coniugato con un figlio, era noto nell’ambiente cinematografico per le sue competenze di tecnico della fotografia e del montaggio.

Fu tra i primi animatori della Resistenza versiliese, mostrando notevoli capacità organizzative. Sfuggito ad una retata fascista il 5 marzo 1944, svolse un ruolo determinante nell’attività della missione “Radio Rosa”, di cui era a capo la cognata Vera Vassalle.

Il 10 giugno 1944, insieme a Gaetano De Stefanis, attraversò le linee del fronte, raggiungendo prima Napoli e poi Brindisi, dove svolse un corso di addestramento per entrare a far parte del Servizio Informazioni.

Nei primi giorni d’agosto i due, come agenti della missione-radio “Balilla I”, vennero paracadutati in Val Tidone, sull’Appennino di Piacenza , presso la Divisione “Giustizia e Libertà “, comandata da Fausto Cossu. In breve tempo riuscirono a organizzare nella zona un’efficiente rete informativa e di collegamento, potenziata nel settembre con l’invio della missione “Balilla II”, di cui facevano parte il cognato di Manfredo, Carlo Vassalle, e Mario Robello, già componenti della missione “Radio Rosa” in Versilia.  

Il 23 novembre 1944 i nazifascisti iniziarono un imponente rastrellamento nelle valli Trebbia e Tidone, che si protrasse per una settimana, con l’impiego della famigerata divisione “Turkestan”, formata da collaborazionisti calmucchi.  Durante i combattimenti, il comando partigiano, la sera del 24, si fermò in una casa nella zona di Pecoraia, dove fu vanamente tentato un collegamento radio con gli Alleati. Da giorni, Manfredo lamentava forti dolori per una grave ferita ad un braccio, che lo aveva debilitato per la mancanza di cure adeguate, e per evitare di essere di ostacolo ai compagni, che non l’avrebbero mai abbandonato, decise di togliersi la vita.

Così il partigiano Gino Bongiorni ricorda gli ultimi momenti di vita di Bertini:”Verso le ore 22 del 24 novembre Maber compì un ultimo tentativo per riuscire a comunicare con la V Armata americana. Uscimmo dal comando e raggiungemmo un vicino castagneto mi arrampicai su un vicino castagno e fissai l’antenna della radio, ma un colpo d’artiglieria del nemico interruppe la corrente e dovemmo ritirarci in casa. Il comandante Maber era avvilito e imprecava contro gli Alleati. Se ne stava seduto di fronte a me tutto preso dalla sua angoscia, guardando come trasognato le fiamme che si agitavano nel camino. Fuori nevicava e faceva un freddo cane. Maber non si lamentava più per il dolore al braccio, pareva che non lo sentisse più tanto era soverchiato dalla preoccupazione per quanto stava accadendo e verso cui si sentiva impotente. Io scrissi un biglietto che volevo far recapitare alla mia famiglia tramite un contadino che  era lì con noi. Quando ebbi finito di scrivere, Maber, che per tutto il tempo era rimasto a testa china senza pronunciare una parola, alzò improvvisamente la testa, mi fissò con intensità e mi chiese di prestargli la penna. Poi prese la valigetta che aveva vicino e che conteneva i piani di trasmissione e documenti vari, se la posò  sulle ginocchia e cominciò a scrivere. Quando ebbe finito, si alzò e uscì, lasciando due fogli scritti sulla valigetta. Tentai di seguirlo, ma mi fermò dicendomi: “Mi allontano per pochi minuti, tu stai pure in casa che fuori fa freddo”. Non insistetti, pensai che si recasse fuori per un bisogno e tornai a sedermi presso il camino. Trascorsero pochi minuti e improvvisamente fui scosso da uno scoppio molto vicino alla casa. C’era con me pure Gino il Francese (il partigiano Gino Caldino). Ci guardammo stupiti e allarmati, pensando che il nemico fosse giunto già sotto casa. Poi insieme ci precipitammo fuori,  chiamando a gran voce Maber, ma non ricevemmo risposta. Guardammo tutto attorno, temendo che il nemico fosse lì vicino, ma non scorgemmo nulla, si sentiva solo l’artiglieria che continuava a tirare sulle nostre posizioni. Allora ci inoltrammo verso il castagneto in direzione del punto dove poco prima avevamo tentato di effettuare la trasmissione. Proprio lì, alla luce di una lampadina a mano, scorgemmo il corpo di Manfredo orribilmente mutilato della testa e del braccio sinistro. Il nostro Manfredo Bertini si era fatto esplodere una bomba a mano, una Sipe, sotto il mento”.

Le due lettere scritte da Maber, una al comandante Fausto Cossu, l’altra al figlioletto, rivelano le motivazioni del suo tragico gesto:

“Maber, alias Manfredo Bertini, a Fausto Comandante della Divisione “Giustizia e Libertà” da Groppo, 24 novembre 1944

Ti comunico copia del mio ultimo telegramma trasmesso al Comando alleato in modo che ti possa servire un giorno come documento… non fosse altro che della mia buona volontà di patriota:
«Da parte di Maber “Est accaduto quello che Maber aveva preannunciato al Comando alleato da uno, uno agosto at quattro novembre. Divisione Giustizia et Libertà composta di oltre quattromila uomini est stata costretta at ripiegare con perdita delle sue migliori posizioni et parte dei suoi uomini di fronte at grande rastrellamento per mancanza RPT [ripeto] mancanza di munizioni RPT munizioni et armi pesanti RPT armi pesanti RPT armi pesanti tante volte richieste RPT richieste. At prova di ciò Maber chiede confronto suoi centoquattordici, dico uno uno quattro telegrammi trasmessi at oggi. Maber seguirà sorte compagni. From Maber”.Tuo amico Manfredo Bertini”

 

Al figlio

“Date le mie condizioni di salute, veramente pessime, a seguito della ferita ricevuta tre mesi or sono, sentendomi incapace a proseguire con mezzi propri, anche per la fatica sostenuta durante la giornata di oggi e d’ieri, sono costretto a fare quello che sono in procinto di compiere, per consentire agli altri componenti la missione di mettersi in salvo e continuare il lavoro. Sono certo infatti che la fatica che li attende i prossimi giorni nel tentativo di mettere in salvo sé e gli apparati sarà tale da non consentire la cura del sottoscritto; e sono certo d’altra parte, dati anche i rapporti di parentela e di stretta amicizia che mi legano con i componenti le missioni Balilla I – Balilla II, che per nessuna ragione al mondo, diversa da quella che io stesso sto per procurare, i detti componenti abbandonerebbero il sottoscritto. Giuro di fronte a Dio che la mia di stanotte non è fuga e questo desidero sappia mio figlio.

Groppo, 24 novembre 1944, Manfredo Bertini”

 Alla sua memoria è stata concessa la Medaglia d’Oro al Valor Militare.

Nato a Pisa nel 1923, studente universitario della Facoltà di Ingegneria, svolse attività clandestina in un gruppo di giovani antifascisti. Dopo i bombardamenti che devastarono Pisa nell’estate del 1943, si trasferì a Seravezza, dove abitava la sorella Lina. Fu amico e fidato collaboratore di Gino Lombardi, con il quale condivise le vicende della nascente Resistenza Versiliese.

  Il 21 aprile 1944, in seguito ad un pesante rastrellamento subito dalla formazione da loro costituita- i “Cacciatori delle Apuane”-, Lombardi, Consani ed Ottorino Balestri partirono per Equi Terme, in Lunigiana, per prendere contatti con i partigiani locali allo scopo di unire le forze in un’unica brigata.

   Fermati a Sarzana  da una pattuglia della GNR, nel tentativo di evitare la cattura, ingaggiarono una sparatoria durante la quale caddero Lombardi e due militi fascisti. Balestri riuscì a fuggire, mentre Consani, ferito ad una gamba, fu catturato dai repubblichini. Piantonato all’ospedale e poi condotto nel carcere di La Spezia, fu più volte interrogato, ma rivelò solo che era su intenzione “recarsi ai monti”, fornendo le false generalità di Luciano Marcucci e nessuna indicazione sulla precedente attività partigiana. Ricondotto a Sarzana, venne fucilato il 4 maggio 1944.

    Così sono ricordati i suoi ultimi momenti di vita da alcuni testimoni

Piero Consani venne quindi riportato a Sarzana e l’indomani mattina venne condotto nel grande cortile interno della Cittadella Firmafede, l’antica fortezza fatta costruire da Lorenzo il Magnifico dopo la conquista di Sarzana da parte della Signoria fiorentina, che dal 1805 fungeva da carcere mandamentale.

Consani passò la notte in una cella del carcere, guardato a vista da una sentinella armata. Nel corso della serata il sarzanese Mario Bartoletti, allora giovane marinaio di leva, che insieme ai suoi commilitoni svolgeva funzioni di guardia alla Cittadella, si avvicinò alla cella e attraverso l’inferriata allungò una sigaretta al prigioniero, subito richiamato con durezza dal milite della   G.N.R. di guardia che fece l’atto di colpirlo con la cassa del moschetto.

La mattina successiva i marinai videro entrare nel grande cortile di accesso al forte, il plotone di esecuzione e dietro loro un giovane che camminava da solo in mezzo ai suoi carcerieri.

«Era un bel ragazzo, molto alto e biondo – racconta Mario Bartoletti –  era tranquillo, quasi assente, mentre prendeva posizione il plotone d’esecuzione formato da militi della stessa Guardia Nazionale Repubblicana, in gran parte sarzanesi. Mi avvicinai a lui, e dopo averla accesa gli diedi una seconda sigaretta e lui la prese fra le labbra, aspirando profondamente». Intanto il ragazzo era stato condotto contro il muro interno che a quel tempo sorgeva sul lato destro del cortile e che è stato poi abbattuto.

Fu testimone della morte di Consani anche Werther Bianchini, che si trovava in carcere alla Cittadella perché arrestato il 30 aprile, con l’accusa di essere il capo comunista del Fronte della Gioventù e di avere organizzato un volantinaggio in vista del 1° maggio. «Ricordo che quella mattina del 4 maggio – racconta oggi – dalle celle in ci trovavamo ai piani superiori, sentimmo le voci delle guardie, i passi del plotone di esecuzione e poco dopo una forte scarica e ancora, in successione, due colpi di pistola. Pensai, pensammo tutti, che ci fosse stata una duplice esecuzione».

“ (…)Nel pomeriggio del 21 settembre una delle tre colonne tedesche  proseguì per Trojanata, dove ebbe lo scontro con gli ultimi resti del II° battaglione del 17° reggimento. Il valoroso maggiore Altavilla, dopo aver tenuto un ultimo drammatico rapporto agli ufficiali del suo battaglione, li aveva invitati a seguirlo nell’ultimo tentativo di sbarrare il passo al nemico. Si erano così stretti al suo fianco i capitani Cerrito e Verrini, i tenenti Cavazzini, Antonio Cei, Zamparo,  Baldasseroni; il sottotenente Lazzaro, il tenente medico Ambrosini e un pugno di soldati.

Ben presto sopraffatti e catturati, l’Altavilla e i suoi venivano rinchiusi nel cortile della scuola civica di Trojanata, dove già si erano convogliati altri soldati e ufficiali caduti prigionieri nella notte.

All’alba venivano tutti ammassati in uno spiazzo delimitato da ulivi, dove si trovava già un altro notevole gruppo di uomini che erano stati catturati nella stessa giornata tra Razata e passo Kolumi.

I tedeschi, dopo aver depredato i prigionieri – circa 600- di ogni valore, togliendo ad alcuni di essi persino gli scarponi, collocate in postazione due mitragliatrici di fronte allo spazio, si disponevano lungo i fianchi con le pistole mitragliatrici  in posizione di caccia. Nessuno poteva immaginare quel che stesse accadendo.

Ad un tratto un ufficiale tedesco si avvicinava ad un prigioniero, lo prendeva per le spalle e gli faceva un dietro front, ordinando a tutti gli altri di fare lo stesso movimento. Nello stesso momento due tedeschi si buttavano a terra impugnando le mitragliatrici”*.

Dell’intero gruppo, soltanto tre  militari, gravemente feriti, riuscirono a sopravvivere.

Alla memoria del tenente Antonio Cei è stata concessa la Medaglia d’Oro al Valor Militare:
Grande assertore della lotta contro i tedeschi, fu tra i primi ad aprire le ostilità con il fuoco del suo plotone mortai. Durante duri combattimenti trascinava i suoi soldati ad una titanica lotta destando l’incontenibile ammirazione dei superiori e dei gregari per la sua fredda audacia che gli consentì, sotto il furioso spezzonamento e mitragliamento degli stukas, di caricare da solo, in un sol tempo, i suoi due mortai. Divenuto l’anima della lotta e della resistenza, comandante dell’unico reparto organico ancora in armi, trovò il coraggio di opporsi, con un nucleo di eroi, alla potenza nemica che lo annientò. Cefalonia, 9-22 settembre 1943”.

Nato a Seravezza (Lucca) nel 1913, si arruolò nella Marina Militare, conseguendo il grado di Guardiamarina presso l’Accademia Navale di Livorno nel 1933. Promosso sottotenente di Vascello l’anno successivo, partecipò alla guerra d’Etiopia imbarcato sulla cannoniera Berta. Nel 1938, divenne tenente di Vascello e prestò servizio sugli incrociatori “Fiume” e “Colleoni” e quindi sulle corazzate “Andrea Doria” e “Vittorio Veneto”. Nel 1941, dopo aver frequentato la Scuola di osservazione aerea di Orbetello, operò con la 147a Squadriglia Idrovolanti dell’Egeo e, nel novembre 1942, nella 148a Squadriglia a Vigna di Valle, quindi nella 182a. Nell’aprile del 1943, fu promosso  capitano di Corvetta e ottenne il comando della “Chimera”.

Dopo l’armistizio prese parte alla Guerra di Liberazione al fianco degli Alleati, assumendo il comando della 1ª Flottiglia MAS, nei reparti della Marina che combattevano contro i tedeschi nel Mare Adriatico.

 Il 13 novembre 1944, cadde falciato da una raffica di mitraglia nel corso di una missione, portata a termine positivamente con una unità isolata nelle vicinanze di un porto saldamente presidiato dal nemico, lungo le coste del Montenegro.

  Già decorato di due Medaglie d’argento, di una di bronzo e di una Croce di guerra, è stato insignito, alla memoria, della massima decorazione militare con la seguente motivazione:” Ufficiale superiore entusiasta e generoso, già distintosi per ripetute prove di valore, chiamato a nuovi ardimentosi compiti al comando di motosiluranti, aveva saputo infondere negli equipaggi il suo giovane entusiasmo ed una profonda dedizione alla Patria ed al dovere, sempre primo ad affrontare il rischio nelle perigliose missioni in acque nemiche. Nel corso di ardua missione compiuta con unità isolata, si portava nelle immediate vicinanze di porto nemico saldamente presidiato e difeso e, dopo aver assolto interamente il compito affidatogli, affrontava una sopravvenuta unità nemica superiore per tonnellaggio ed armamento, apriva il fuoco per primo e dopo aver inflitto perdite all’avversario cadeva fulminato da raffica di arma automatica, coronando con il supremo sacrificio, una esistenza tutta dedita alla Patria e alla Marina nello spirito del glorioso motto dei M.A.S. della Regia Marina. Mare Adriatico – Coste montenegrine, 13 novembre 1944”.

Nato a Firenze nel 1919, sottotenente dei Bersaglieri, coniugato con una figlia, dopo l’otto settembre sfollò a Corsanico (Massarosa), dove entrò in contatto con il CLN di Viareggio, partecipando, col nome di battaglia di “Tito” all’attività clandestina, che aveva come base la canonica di don Alfredo Alessandri, parroco di Marignana (Camaiore).

  Nel maggio 1944 fu nominato comandante della formazione “Luigi Mulargia”, costituitasi sul monte Prana, che operò soprattutto sui monti di Massa, in seguito alla fusione con i partigiani locali.

    Purtroppo, l’esperienza di comandante partigiano di “Tito”fu breve in quanto cadde a Forno (Massa) il 13 giugno 1944, nel corso dell’attacco sferrato dai nazifascisti per  riprendere il controllo del paese, occupato dalla “Mulargia” quattro giorni prima, in seguito ai radiomessaggi che lasciavano prevedere l’ imminenza di uno sbarco alleato sulla costa della Toscana settentrionale.

  Tuttavia, ebbe modo di mostrare indubbie doti di comandante, come coraggio, senso di responsabilità ed equilibrio, che suscitarono ammirazione in quanti ebbero modo di condividere con lui questo intenso periodo di lotta partigiana, e che gli valsero la concessione della Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria.

  Così sono stati ricostruiti gli ultimi momenti della sua vita:

 “ Nella notte tra il 12 e il 13 giugno, provenienti da La Spezia, un battaglione tedesco forte di 300/400 uomini ed un reparto di 50/100 uomini della X Mas, attaccarono Forno con una perfetta azione di accerchiamento attraverso due direttrici di marcia (dalla via Bassa Tambura, salendo da Massa e dal passo del Vergheto, salendo da Colonnata).

  L’attacco fu sicuramente una sorpresa per le forze partigiane. Unico tentativo di fermarlo consistette nel far brillare le mine che erano state predisposte sulla via Bassa Tambura in località Sant’Antonio, circa un chilometro prima di Forno. Esse costituivano una delle poche opere di difesa predisposte durante l’occupazione.

   L’operazione, condotta dai partigiani della Brigata “Ceragioli” di Casette, comandati da Righetto, avvenne verso le quattro del mattino, ma non provocò danni anche perché parte della polvere non esplose forse a causa dell’umidità. Pochi sassi raggiunsero la strada e non fermarono certo l’avanzata del nemico.

 Sul far dell’alba, quindi, si può presumere intorno alle 5, una squadra che si era svegliata e organizzata al rumore degli spari e dei bengala (ad ulteriore dimostrazione della sorpresa) affrontò i tedeschi in prossimità della chiesetta di Sant’Anna. Cinque uomini al comando di Mario Conti spararono con i mitra sui tedeschi, che risalivano la strada, e causarono con certezza feriti e vittime  la cui quantità è però impossibile da ricostruire. Questo è l’episodio più rilevante per l’eccidio perché offre anche una spiegazione per la scelta del luogo in cui i tedeschi nella serata organizzarono le fucilazioni ( 56 uomini fucilati, 10 partigiani caduti in combattimento, una donna e un bimbo uccisi in paese costituiranno il tragico bilancio della giornata).

 Un’ altra squadra di partigiani aveva forse già sparato sui tedeschi 300 metri prima, al bivio tra Forno e Resceto, ma non esistono su ciò prove e testimonianze certe.

  Infine i partigiani spararono sui tedeschi anche dalle prime case del paese, soprattutto da quella esistente sul fiume, ad una finestra della quale era stata posizionata una mitragliatrice che controllava 200 m. di strada. Questi partigiani ad un certo punto si defilarono, forse per aver finito le munizioni forse non riuscendo più a sostenere l’assalto nemico che proveniva non più solo dalla strada principale, ma anche dalla stradina che porta al cimitero sulla sinistra del Frigido. In quel momento, molto probabilmente, i nazifascisti provenienti dal Vergheto stavano già  entrando in paese dalla parte alta. Saranno state le 7-7,30 del  mattino.

  E’ quasi impossibile ricostruire i movimenti di Tito in quelle ore frenetiche. Fu anch’egli svegliato dagli spari (era nella caserma dei Carabinieri, divenuta comando della “Mulargia”). Cercò di radunare i di collegarsi con i partigiani presenti in paese istruì la squadra di Conti che operò a  Sant’Anna e poi si mosse qua e là cercando di organizzare gli uomini.

 Un altro epicentro di fuoco fu la Filanda, vecchio cotonificio esistente 300 m. a monte dell’abitato, a fianco delle sorgenti del Frigido. Su di essa avevano puntato i nazifascisti provenienti dal Vergheto, considerandola erroneamente come centrale del comando della resistenza.

  I partigiani che vi avevano dormito l’avevano abbandonata ai primi spari. Alcuni fuggendo dietro lo stabilimento su per i pendii scoscesi, altri salvandosi addirittura lungo il canale di scarico,, altri ancora attraversando la strada e inerpicandosi sopra le rocce della località Pizzo Acuto, un torrione roccioso  che si eleva proprio  dirimpetto alla Filanda.

  In quello stesso luogo venne a trovarsi Tito verso le ore 7,30-8 del mattino.

 Il comandante era uscito dal paese con alcuni uomini da via Scalette, una mulattiera che appunto conduce al Pizzo, forse per raggiungere la filanda, nei cui dintorni si sentiva ancora sparare.

 Nelle piane dei “Muradelli” incontrarono i Tedeschi, si sparò e i partigiani si divisero. Tito si ritrovò solo alle casette del Pizzo e poi fu visto inoltrarsi sotto il torrione roccioso inseguito dai tedeschi che lo uccisero. La motivazione della medaglia d’oro al valor militare, che poi gli fu attribuita, recita con enfasi che Tito sui uccise con l’ultimo colpo della sua pistola, m  non esiste alcuna testimonianza a controprova di tale fatto ed a noi sembra  del resto che il suicidio nulla aggiunga alla qualità dell’uomo.

  Il suicidio resta quindi storicamente soltanto un’ipotesi, che del resto non è del tutto da escludere”.

Nata a Pisa nel 1903, si sposò con Alfredo Ardimanni, militante anarchico, da cui ebbe il figlio Alberto nel 1923. L‘anno successivo la coppia emigrò in Francia, per sfuggire alle persecuzioni ed alle minacce di morte dei fascisti. stabilendosi nei pressi di Marsiglia, dove Alfredo svolse prima l’attività di muratore e poi quella di piccolo imprenditore edile.

   Dopo qualche anno i due si separarono e il piccolo Alfredo venne affidato ad una zia paterna che abitava a Firenze, dove frequentò i primi anni delle Elementari. Dopo la riconciliazione dei genitori,  il bambino ritornò in Francia e la famiglia si trasferì a Tolone.

  Allo scoppio della guerra, Alfredo venne rinchiuso con altri italiani nel campo d’internamento di Saint Cyprien, nei pressi della frontiera spagnola, da cui fu successivamente rilasciato. Nel 1942 la coppia si separò definitivamente e Cristina tornò in Italia, mentre Alfredo e il figlio rimasero in Francia, costretti a nascondersi per evitare la cattura da parte dei nazisti.

    Cristina raggiunse l’Appennino modenese, dove, nei pressi di Pian dei Lagotti, viveva la nonna materna. Nella primavera del 1944 si unì ai partigiani sui monti della Versilia, una decisione probabilmente maturata durante  un soggiorno a Pisa, dove, ogni tanto, si recava per far visita ai suoi familiari . Prese parte attiva alle vicende della formazione “Bandelloni”, mostrando un carattere forte e deciso.

Così la ricorda il partigiano Moreno Costa: “ Cristina era una donna decisa, pareva come una mamma con i suoi quarant’anni, a noi che eravamo quasi tutti molto giovani. Alcuni la chiamavano “la francese”, per la sua provenienza, ma sapevamo poco della sua storia personale.  Partecipava alle azioni, dimostrando di sapersi adattare bene ai disagi della vita in montagna, e si distinse nei combattimenti avvenuti durante il rastrellamento effettuato dalle SS sul monte Ornato, alla fine del luglio 1944.

  Il successivo 8 agosto noi della “Bandelloni” eravamo dislocati sopra Farnocchia, quando fummo attaccato dai Tedeschi. Prendemmo posizione  per difenderci, ma fummo oggetto di un  violento fuoco di mortai. Io mi trovavo ad un centinaio di metri dalla postazione in cui era Cristina, in località Le Mandrie. Non potendo resistere all’attacco fu deciso lo sganciamento. Quando, dopo alcune ore, ci riunimmo nel luogo convenuto, venni a saper che era stata uccisa da un colpo di mortaio mentre azionava una mitragliatrice”.

    Venne sepolta nel cimitero di Farnocchia, poi, dopo alcuni anni, i suoi resti furono traslati nell’ossario comune.

 Il marito Alfredo, nell’immediato dopoguerra, tornò a Pisa dove venne a conoscenza della morte di Cristina, poi rientrò in Francia. l figlio Alberto emigrò nel 1948 in Nuova Caledonia, dove con gli anni si affermato come imprenditore edile.

   Nel 2006, grazie ad una lunga ricerca condotta da Giovanni Cipollini per conto dell’ANPI di Pietrasanta, è stato possibile rintracciare Alberto, che nel mese di agosto è venuto in Versilia per visitare i luoghi dove la madre ha combattuto e il cimitero dove adesso riposa .

  Nel 1996, per iniziativa dell’ANPI e del Comitato Onoranze ai Martiri di Sant’Anna di Stazzema, nel cimitero di Farnocchia, è stata collocata una lapide sulla parete della piccola cappella dell’ossario in memoria di Cristina e di Luigi Mulargia, un altro partigiano caduto nella zona, mentre il Comune di Pietrasanta le ha titolato una strada.

Nato a Olbia nel 1924 e residente a Bonorva (Sassari), si arruolò nella Marina Militare nel 1941, presso la base di La Maddalena. Frequentò la scuola CEMM di Venezia, poi, dal settembre 1942 al febbraio 1943, prestò servizio presso la torpediniera T/7 quindi fu imbarcato sulla nave ausiliaria “Cattaro” dal 25 febbraio 1943.

  Dopo l’armistizio, nel vano tentativo di trovare un imbarco per la Sardegna, giunse in Versilia, dove entrò in contatto con Gino Lombardi, con cui condividerà le vicende della lotta partigiana nelle file dei “Cacciatori delle Apuane”Cadde in combattimento sul Monte Gabberi il 18 aprile 1944.  

Così ricorda le circostanze della sua morte il partigiano Lido Lazzeri, che si trovava vicino a lui durante il combattimento:

   “Stavo al di sopra della posizione dov’erano  Mulargia e i due mongoli (due disertori tedeschi di origine asiatica) quando mi vidi molto vicini repubblichini che salivano e quasi era arrivati sul colle; cercai di sparare con lo sten, che si inceppò, come del resto avveniva spesso. Così mi gettai dietro a una roccia e avendo delle bombe a mano, ne gettai dall’altra parte della roccia verso il ripido sentiero; i lanci fermarono la loro avanzata e cominciai ad udir gridare forse perché qualcuno era rimasto ferito, ma io dalla posizione non potevo vedere. Continuai ancora, poi cercai di scendere dove era il sardo che, in piedi, si dava da fare per sparare con il mitra Beretta; lo esortai a non esporsi troppo, ma egli incurante del pericolo sembrava raggiante per aver fatto il vuoto davanti a sé, coadiuvato dai mongoli. Scesi più in basso dove erano Consani, Lombardi ed altri che non riuscivano a tenere quelli che salivano dalla Pietralunga e che arrivavano da diverse direzioni. Lalle (= Aldo Berti nda) era in altra posizione e pensai che anche là facesse abbastanza caldo. Fu allora che Mulargia venne colpito , ma riuscì a gridare: ”Fuggite, per me è finita, mettetevi in salvo”. Il resto lo sappiamo. Il mongolo, piangendo, quando fummo nel bosco disse:”Luigi è kaput” .

Nato a Barga nel 1917, dove il padre si era temporaneamente trasferito per motivi di lavoro, crebbe a Riomagno (Seravezza), in una famiglia  antifascista, che, addirittura, ebbe la casa assalita dagli squadristi nel settembre 1924. Il padre Gino e il nonno Raffaello risposero con le armi all’attacco, aiutati dalle rispettive mogli, Luisa e Italia, tenendo loro testa per alcune ore, prima di fuggire sui monti circostanti.

 Da bambino Amos, colpito da poliomielite, perse l’uso delle gambe e fu costretto a muoversi con le stampelle e con una carrozzella, tuttavia, grazie al carattere forte e socievole, prendeva parte attiva alla vita del paese. Suonava la chitarra e il mandolino, aveva molti amici ed era benvoluto da tutti. Apprese il mestiere di calzolaio, poi, per un paio di anni, gestì persino una segheria di marmo, ma, su pressione della famiglia, tornò alla prima occupazione.

    Durante la Resistenza, il fratello Lino era partigiano a Firenze, dove fu gravemente ferito e catturato dai tedeschi, rimanendo nelle loro mani fino alla liberazione della città, Amos, il padre e il fratello adolescente Solitario militavano nella formazione “Bandelloni”.  Amos svolgeva compiti di staffetta, muovendosi con la sua carrozzella, sotto il cui sedile riponeva armi, messaggi e documenti, che poi nascondeva in casa, dove, di notte, i compagni scendevano a ritirarle. La sua condizione fisica non destava sospetti e, spesso, si intratteneva a parlare con i soldati tedeschi durante il controllo ai posti di blocco.

   Nella notte del 25 di giugno 1944, però, per la denuncia di un delatore, le SS fecero irruzione nella sua casa di Riomagno, dove con lui si trovavano la madre, il fratello, la sorellina Solidea, cui era particolarmente affezionato, e un amico, Luigi Novani, ospitato per la  festa del patrono.Dopo una brutale perquisizione, i due giovani vennero condotti via insieme ad un altro conoscente, Lorenzo Tarabella, catturato in paese, e rinchiusi nella sede del comando tedesco nella vicina Corvaia.

  Il giorno successivo furono di nuovo portati a Riomagno con automezzo e, giunti davanti alla sua casa, le SS dissero ad Amos che li avrebbero rilasciati se avesse fatto il nome dei partigiani, ma senza ottenere risposta.

  I tre prigionieri furono allora condotti  a Compignano (Massarosa), sul monte Quiesa,  in una villa che ospitava un comando tedesco, dove subirono percosse e pressanti interrogatori. Amos ammise di appartenere alla Resistenza, scagionando i suoi due amici da ogni responsabilità, che così scamparono alla morte, ma continuò a tacere i nomi dei partigiani e la loro dislocazione.

  Venne trucidato la mattina del 27 e così Novani ricorda gli ultimi momenti di vita di Amos:

Il 26 giugno ci fecero montare di nuovo sopra un camion, non più seduti come prima, ma in ginocchio. Il povero Amos era paralizzato alle gambe e non poteva stare in ginocchio. Noi allora lo mettemmo con un braccio al collo fra me e Lorenzo e così si reggeva. Il camion partì e ci condussero verso il monte Quiesa, a Compignano (circa 25 chilometri da Seravezza), dove c’era una villa in cui era alloggiato il comando delle SS.

 Una volta arrivati molti soldati domandavano chi eravamo.“Partisan”. Ci misero al muro con le braccia alzate. Un po’ resistemmo, ma poi i nostri muscoli non ressero e allora quelle canaglie cominciarono a darci delle botte col calcio del moschetto dietro le gambe. Picchiavano sodo e cademmo addosso l’uno agli altri come bestie. Ad Amos avevano tolto anche le stampelle e quando lo picchiavano dicevano:”Tu capo partigiano”Dopo tre ore di quella scena eravamo in un bozzo di sangue tutti e tre. E lì ci lasciarono al nostro destino (…)

  All’alba del 27 venne una delle SS con una machin pistole in spalla, prese il povero Amos per una gamba e lo trascinò via come una bestia per una ventina di metri. Amos urlava :”Oddio!Oddio!” e quando vide il tedesco che caricava la pistola cominciò a strillare forte chiamando più volte la mamma.”Mamma, mamma!” gridava mentre la SS gli piantava la pistola nel centro della fronte. Parti un colpo, subito seguito da una scarica, tutti sparati nella testa. Poi prese il corpo di Amos e lo gettò giù in poggio e accese una sigaretta”:

Raccolto e sepolto da alcuni contadini, il suo corpo fu traslato nel cimitero di Seravezza nel 1946. Nel 1978 Amos Paoli è stato insignito della Medaglia d’Oro al Valor Militare con la seguente motivazione: “ Partigiano operante nella formazione « Bandelloni» , pur gravemente menomato agli arti inferiori fin dall’infanzia, si adoperava con grande dedizione come staffetta per il collegamento fra formazioni partigiane operanti in Versilia. Su delazione fascista veniva sorpreso nella sua abitazione dove venivano rinvenuti notevoli quantitativi di armi e munizioni. Assumendosi personalmente ogni responsabilità scagionava gli altri compagni di lotta che riuscivano così ad avere salva la vita. Sottoposto ad atroci torture, nulla rivelava della formazione di appartenenza, per cui veniva trucidato facendo olocausto della sua giovane vita che concludeva al grido di: Viva la libertà, viva l’ Italia . Fulgido esempio di cosciente valore, di altruismo e di piena dedizione alla causa della libertà. – Seravezza Massarosa (Lucca ), 25 – 27 giugno 1944”.

Nacque nel 1914 a Cenaia, frazione di Crespina (Pisa), da famiglia contadina. Entrato in seminario, venne ordinato sacerdote nel 1938 e, dopo una breve esperienza a Pontedera, fu nominato Parroco di Valdicastello, frazione del Comune di Pietrasanta, il 4 luglio 1940.

   Durante l’occupazione nazifascista collaborò con la Resistenza, tanto che gli sarà riconosciuta la qualifica di “partigiano combattente” nelle file della formazione “Bandelloni”. D’intesa con il CLN si adoperava per alleviare i bisogni materiali della popolazione e per assistere le migliaia di sfollati che da tutta la Versilia si rifugiarono a Valdicastello, dopo l’ordine di sfollamento impartito dai tedeschi in diverse località.  

  Il 12 agosto 1944 fu preso nella sua canonica nel corso del rastrellamento effettuato dalle SS, reduci dalla strage di Sant’Anna, che portò alla cattura di alcune centinaia di uomini.

  Quattordici di loro furono subito fucilati in località Molino Rosso, gli altri condotti a Lucca; la maggior parte finì alla Pia Casa di Beneficenza, luogo di smistamento per i prigionieri da utilizzare nel lavoro forzato, quelli sospettati di aver contatti con la Resistenza a Nozzano, sede del comando della 16 SS Panzer Grenadier Division.

  Don Raglianti fu inserito in questo gruppo e, per alcuni giorni, subì maltrattamenti e percosse nei locali della scuola elementare, trasformata in luogo di detenzione e tortura.

 Si legge nella testimonianza di Mario Bigongiari, arrestato con il fratello don Mario, Cappellano di Lunata (Lucca):

“Ci condussero in un’aula del secondo piano, dove trovammo altri due di Lucca, certi Ninci e Vannini; erano circa le sette del mattino. Dalle condizioni dei primi internati veduti, capimmo che ci trovavamo in carcere e fra persone su cui pesavano gravi accuse. In una prima stanza, tutto intorno alla parete ‘erano dei  giovani in ginocchio di cui alcuni bendati. Nel mezzo c’era una sentinella tedesca armata di mitra che sorvegliava ogni movimento, percuotendo brutalmente chi, per stanchezza o insofferenza,cambiava posizione. Sempre al piano superiore in comunicazione con la nostra stanza, vi erano i rastrellati di Valdicastello. Tra loro in seguito conoscemmo il pievano don Libero Raglianti, un carmelitano Padre Marcello e uno studente di teologia salesiano Tognetti. Anche le condizioni di questi erano dolorose. L’aspetto lo dimostrava: barba lunga, vestiti strappati, volti cadaverici. Restammo in quella stanza, priva di qualsiasi mobile, tutta la mattina, senza subire alcun interrogatorio e senza  uscire nemmeno per i più elementari bisogni. Alle quattro del pomeriggio ci portarono in un solo coperchio di gavetta militare del grano cotto, che doveva servire insieme ad un pezzo di pane per 12 persone. La sera stessa ci fecero scendere al primo piano, in una stanza più grande con della paglia e delle panche, la quale comunicava con la stanza più terribile perché qui le sofferenze erano continue(…) Dopo due giorni cominciarono gli interrogatori. Ogniqualvolta non li soddisfacevano, si sfogavano brutalmente. Continuamente pesava su di noi l’incubo di partire sopra una camionetta con alcuni tedeschi armati. Poco dopo tornava la camionetta con i soli tedeschi. Ogni giorno eravamo spettatori di atrocità raffinate: troppo ci vorrebbe a raccontarle tutte. Un giorno portarono una donna di circa 30 anni. Fu messa nella stanza superiore, poi perché per i maltrattamenti subiti gridava aiuto dalla finestra, fu condotta in un piccolo gabinetto al piano superiore, sporco da non dirsi. Ve la tennero in fetore insopportabile, senza avvicinarsi nessuno, senza bere e senza mangiare due giorni e due notti. Impazzita, fu fucilata in una fossa a poca distanza dalla scuola. Si chimava Lelia Farnocchia.

   Ricordano Italo Ninci e Antonio Vannini, scampati alla morte nel carcere di Nozzano:”Fummo fatti salire al piano superiore dove trovammo due stanze piene di gente, dove trovammo una sessantina di persone portatevi da vari punti dalla nostra e dalla provincia di Pisa, da Pietrasanta e da Valdicastello., tutte giacenti a terra ma dagli aguzzini tedeschi obbligati a fare dei salti, a giostrare vorticosamente, a passare con ventre denudato sulla terra, a strusciare la lingua sul pavimento ed altre esercitazioni brutali. Nello stesso locale c’erano tre sacerdoti: don Giuseppe Del Fiorentino, parroco di Bargecchia, don Libero Raglianti, Parroco di Valdicastello e un salesiano (=Renzo Tognetti)

   Nella notte tra il 28 e il 29 agosto1944 venne fucilato con altri prigionieri in località Laiano, nei pressi di Filettole (Vecchiano) al confine tra le Province di Lucca e Pisa.

  Nel 1946 le sue spoglie furono traslate nella Chiesa di Valdicastello.

  Alla memoria di don Raglianti è stata concessa la Medaglia d’Oro al Merito Civile, con la seguente motivazione:

Esercitò il ministero sacerdotale con rara abnegazione, sempre svolgendo opera generosa e altruistica per il bene dei suoi parrocchiani. Durante l’occupazione nemica, con umile eroismo, soccorse sfollati, accolse con carità cristiana perseguitati e feriti, si prodigò in innumerevoli iniziative per salvare il suo gregge e alleviarne le sofferenze. Diffidato dall’invasore, volle continuare, con sprezzo del pericolo, nella sua opera esemplare; catturato, sopportò, con silenzioso coraggio, torture e sevizie, affrontando serenamente la morte. Fulgido esempio di amore sacerdotale, spinto fino al sacrificio cosciente della vita.”

Nato a Pisa nel 1923, studente universitario in Medicina, svolse attività clandestina nella sua città, diffondendo stampa antifascista e scritte sui muri contro la dittatura, subendo per questo un arresto.

 Ricercato dai repubblichini si spostò in Versilia, dove entrò in contatto con i patrioti di Viareggio e di Camaiore, operando con il nome di battaglia di “Beppe”.

 Nel maggio 1944 divenne commissario politico della “Luigi Mulargia”, comandata da Marcello Garosi (“Tito”), poi, al suo scioglimento, seguito ai tragici fatti di Forno (Massa), costituì la “Nuova Mulargia”, attiva sulle colline di Camaiore.

  Nel luglio 1944, la formazione confluì nella X bis Brigata Garibaldi “Gino Lombardi” e “Beppe” assunse il comando della II compagnia.

   Dopo la scioglimento della Brigata, in conseguenza ai duri combattimenti nella zona di Monte Ornato, Taddei fu nominato comandante della formazione “Marcello Garosi”, che operò nella sui rilievi sovrastanti Camaiore e Massarosa, facendosi apprezzare, nonostante la giovane età, per la determinazione, il coraggio e la preparazione politica.

   Cadde il 28 agosto 1944 nei pressi di Gualdo (Massarosa), durante un’azione esplorativa, che stava effettuando insieme a Ciro Bertini  (“Chittò) e Gustavo Rontani (“Tono”) per predisporre lo spostamento verso la piana della formazione, essendo ormai prossima l’avanzata degli Alleati in territorio veriliese.

I tre caddero in un’imboscata tesa da una pattuglia tedesca e, non essendo armati per evitare rappresaglie verso la popolazione in caso di cattura, non poterono reagire.

 Taddei e Bertini caddero uccisi, mentre riuscì a fuggire Rontani, che il giorno seguente inviò il seguente messaggio al CLN:

“ 29/8/44, ore 9

Caro Tonino (Antonio Giorgetti), è per darti tristissime notizie che ti scrivo. In un agguato tesoci dai tedeschi sul sentiero da Chiari a Gualdo, i nostri ottimi e poveri amici Beppe e Chittò sono stati trucidati. La tragedia è successa ieri all’una del pomeriggio ed è per miracolo che sono rimasto vivo io. Ecco come è successo.

   Stavamo ritornando da un giro di ricognizione alla zona insieme a Beppe, quando sul sentiero suaccennato ci siamo trovati di fronte ad una pattuglia di tedeschi, che si era nascosta fuori dal sentiero, aspettando gli uomini di passaggio. Ci siamo lanciati in fuga verso una scarpata che portava in fondo valle, subito inseguiti dai tedeschi che ci sparavano dietro vari colpi di pistola,e, credo,di “maser”., senza peraltro ferirci. L’inseguimento è continuato fino in fondo al vallone, ma le SS sono riuscite a d aggiraci ed a intercettare la fuga, prima di Chittò, poi di Beppe. Vista inutile la fuga, mi sono gettato in un ruscello lì vicino, cercando di nascondermi. Ho inteso che domandavano qualcosa a Beppe che si trovava a dieci passi da me  e Beppe rispose: ”Non capire, non capire!” Poco dopo udivo due colpi d’arma da fuoco e Chittò che gridava: “Ahi, Ahi!”. Seguivano altri quattro colpi di pistola. Ho inteso cadere i corpi rantolando, poi più niente.

   I tedeschi, che credo fossero quattro o cinque, sono rimasti un po’ a contemplare il oro assassinio e poi si sono allontanati. Sono riuscito così a riprendere la fuga e a pormi in salvo(…)”.

   Nel dopoguerra fu richiesta per Taddei la concessione della Medaglia d’Argento al Valor Militare, senza alcun esito, nonostante per molti anni si sia creduto che fosse stata accolta.

Nato a Pietrasanta nel 1919, chierico salesiano e studente di teologia, apparteneva ad una famiglia antifascista, che aveva stretti legami di amicizia con quella di Gino Lombardi, una delle più significative figure della Resistenza versiliese.

   Partigiano della formazione “Bandelloni”, Renzo svolgeva attività di collegamento con il CLN di Pietrasanta dal quale aveva ricevuto l’incarico di organizzare, per quanto possibile in quei drammatici momenti, la distribuzione di cibo e di generi vari alla popolazione.

  Per questo motivo collaborò strettamente con il parroco di Valdicastello, don Libero Raglianti, altro sacerdote attivamente impegnato nella Resistenza, insieme al quale fu catturato nella canonica del paese durante il rastrellamento eseguito dalle SS, sce